Un gigante della produzione vinicola è in questi giorni al centro di una grossa operazione finanziaria. Il fondo Clessidra ha acquisito una quota di maggioranza di Botter Spa, azienda veneziana tra i maggiori esportatori di vino italiano nel mondo detenuta dalla famiglia Botter e DeA Capital.
L’investitore ha individuato Botter come cardine di un’iniziativa di inserimento nel settore vinicolo che tramite una strategia di acquisizioni mirate si pone l’obiettivo di promuovere la creazione di un colosso italiano nel settore con un crescente sviluppo in nuovi mercati.
Con Botter, Clessidra fa il proprio esordio nel settore del vino, un mercato globale che oggi muove oltre 300 miliardi di euro.
Proprio per questo abbiamo sentito Alessandro Botter per parlare della sua esperienza imprenditoriale.
Ci racconti la storia della tua azienda?
La storia della mia azienda è in continuo divenire tanto che è cambiata pochi giorni orsono. L’azienda è stata fondata ed iscritta alla Camera di Commercio nel 1928 da mio nonno. Non faceva altro che comprare del vino e commercializzarlo. La modalità erano pionieristiche: c’era addirittura una barca che trasportava le botti lungo un canale permettendo a mio nonno di vendere il vino a Venezia. Successivamente è iniziata la vera e propria produzione del vino in maniera artigianale fino a quando – con l’avvento della seconda generazione- la produzione e la commercializzazione del prodotto si sono evolute. Mio padre e mio zio hanno cominciato a guardare verso l’estero in un momento, gli anni settanta, in cui l’esportazione del vino non era un’attività sviluppata in Italia. La commercializzazione all’estero faceva ovviamente perno sui paesi ove la percentuale di emigranti italiani era corposa (Germania, Olanda, Belgio, Svizzera). Negli anni ottanta il trend è andato in netta crescita sia tecnologica sia commerciale, fino a quando, negli anni novanta, è entrata la terza generazione (io, mia sorella e mio cugino) che ha consolidato la propensione all’esportazione e la vocazione a privilegiare percorsi nuovi come quelli orientati al mondo della grande distribuzione. Nel corso degli anni il punto fermo è sempre stato quello di mantenere una politica aziendale che privilegiasse gli investimenti in azienda piuttosto che gli utili consentendoci nel tempo di avere la forza e la capacità produttiva necessari a soddisfare le esigenze dei grossi gruppi internazionali che stavano iniziando a comprare volumi veramente grandi in Italia. Il segreto è stato appunto questo: farsi trovare pronti quando ci veniva chiesto anche di imbottigliare due milioni di bottiglie in due giorni. Il segreto è stato anche quello di non circoscrivere la nostra attività esclusivamente ai vini veneti ma di sviluppare marchi e produzioni di vini italiani su scala multiregionale in modo da diversificare l’offerta del made in Italy. Questo ci ha consentito di diventare leader italiani in termini di fatturato e secondi in termini di numero di bottiglie prodotte. La storia recente invece è un fatto di attualità.
Il settore della produzione vinicola è spesso considerato un ambito merceologico molto ancorato alla tradizione. È vero oppure, come tutti i settori, è soggetto al cambiamento?
Il settore della produzione vinicola è sicuramente ancorato alla tradizione: basta osservare una qualsiasi etichetta per poter sperimentare empiricamente quanto il richiamo alla tradizione sia forte. È anche vero però che negli ultimi anni qualcosa sta cambiando. Lo storytelling delle aziende si sta evolvendo, fermo restando che ci sono sicuramente alcuni mercati – come a puro titolo di esempio quello cinese – che sentono ancora molto forte il richiamo alla tradizione e alla storia di un marchio. Detto questo, come accennavo poc’anzi, qualcosa nella comunicazione si sta modificando orientando il sistema comunicazionale al linguaggio dei giovani e al loro registro linguistico trascurando i canali più tradizionali di racconto del vino e dell’azienda. Ma ovviamente si tratta di progetti aggiuntivi e di nicchia rispetto alla tradizione cui questo settore è saldamente ancorato. Per tradizione ovviamente non si intende un approccio classico fine a sé stesso: si parte dalla tradizione per costruire qualcosa di innovativo.
Nel settore vinicolo conta di più l’innovazione tecnologica oppure quella commerciale e comunicazionale?
Dal punto di vista tecnologico, il processo produttivo è sufficientemente maturo e grossi strappi innovativi non si scorgono all’orizzonte. Direi che la partita si gioca sull’innovazione in ambito commerciale e comunicazionale. Il marketing gioca un ruolo importante nella competizione globale. Volendo semplificare con una battuta, direi che il vino si beve a partire dall’etichetta perché è difficile andare a raccontare a qualcuno che tu fai il vino in maniera rivoluzionaria o – se vogliamo – diversa rispetto a un altro grande produttore. La differenza quindi sta nella narrazione. È assolutamente fondamentale. Tanto quanto lo è l’apertura di nuovi canali commerciali.
In questa logica, quanto conta allora l’attenzione alla qualità del prodotto?
L’attenzione alla qualità del prodotto conta tantissimo perché l’etichetta non è ovviamente tutto. Dietro l’etichetta ci deve essere un prodotto di altissima qualità perché solo in questo modo riesci ad essere credibile dal punto di vista commerciale. La qualità media in questo settore si è alzata moltissimo per cui non puoi permetterti di non avere alti standard perché rischieresti di soccombere.
Quali sono i driver su cui puntare per avere successo nel futuro? Sono dissimili rispetto a quelli del passato?
Sicuramente i driver sono diversi perché il mondo dell’enologia sta cambiando. I driver non sono più quelli antichi per il semplice motivo che non sono più le aziende a condizionare il mercato ma è il mercato a condizionare l’andamento delle aziende attraverso i buyer della grande distribuzione. Non c’è più il commerciale con la valigetta che vende i tuoi vini in giro per il mondo ma ormai il meccanismo di vendita dei prodotti vinicoli è determinato da meccanismi di acquisto accentrati e tarati su scala internazionale. Va da sé che anche i volumi di prodotto richiesti in relazione al tempo sono così importanti da tagliare fuori tutta una serie di produttori medi e piccoli che per capacità produttiva e organizzativa non possono tenere il ritmo.
Apriamo il discorso legato alla pandemia: ha influito maggiormente sul processo produttivo o sulla commercializzazione?
La pandemia ha influito esclusivamente sulla commercializzazione. Il discorso produttivo non è stato minimamente alterato dalla pandemia. Nella nostra realtà buona parte del processo produttivo è altamente meccanizzato per cui non abbiamo avuto imprevisti in fase di produzione. La problematica è stata quella di commercializzare un prodotto nel momento in cui molti dei canali (bar, ristoranti, pub ecc) erano fermi. Lo stesso discorso non è ovviamente applicabile alla grande distribuzione.
Quanto è difficile per un giovane fare impresa oggi? I giovani oggi hanno più vincoli o opportunità?
Oggi i giovani hanno sicuramente più opportunità che vincoli. Con una idea innovativa e credibile oggi un giovane ha accesso a fonti di finanziamento enormi rispetto al passato. Credo che oggi paradossalmente ci siano più capitali che start up realmente innovative. Ci sono opportunità di finanziamento pazzesche in circolazione. Io stesso ho finanziato qualche start up di ragazzi giovani e volenterosi. Basta avere delle idee solide: ci sono fondi di investimento e privati pronte ad aiutare. Rispetto agli anni ottanta questo è un momento magico sul versante dei capitali pronti a finanziare giovani intraprendenti.
Cosa può consigliare un imprenditore esperto ed arrivato ad un giovane che vuole fare impresa?
Il primo consiglio è quello di impegnarsi molto. I risultati non vengono da soli: ci vuole impegno, dedizione, concentrazione e lucidità. Per fornire un messaggio simbolico, è necessario alzarsi molto presto la mattina e terminare molto tardi la sera rinunciando a un sacco di cose. Io che ormai posso considerarmi un imprenditore esperto sono in ufficio alle 7 ma non per una forma di dedizione di facciata o di ipocrita attaccamento al lavoro. Insieme a me tutto il top management adotta questo stile di vita perché ciò ci permette di mettere tutto l’impegno necessario a raggiungere i risultati che ci siamo dati. La cosa più importante per un giovane è il sacrificio. Io ho rinunciato da pochi anni ad andare a lavorare il sabato. Sembra una cosa anacronistica e banale ma il sacrificio è importante. Altra cosa importante è quella di coltivare le relazioni interpersonali con clienti e fornitori impostando uno stile basato sulla lealtà e sull’onestà perché questi valori ancora – almeno in un mondo come il nostro – contano molto.